Leczio di suor Anna Maria Mulazzani

La lectio di suor Anna Maria Mulazzani
convegno regionale

LECTIO DIVINA    LC. 15, 11-32  (cfr. Ger. 31, 16-22)

IL FIGLIO PRODIGO
“18 Ho ripetutamente udito Efraim lamentarsi: "Tu mi hai castigato e io sono stato castigato come un torello non domato; fammi ritornare e io ritornerò, perché tu sei l'Eterno, il mio DIO. 19 Dopo essermi sviato, mi sono pentito; dopo aver riconosciuto il mio stato, mi sono battuto l'anca. Mi sono vergognato e ho provato confusione perché porto l'obbrobrio della mia giovinezza". 20 È dunque Efraim un figlio caro per me, un figlio delle mie delizie? Infatti, anche dopo aver parlato contro di lui, lo ricordo ancora vivamente. Perciò le mie viscere si commuovono per lui, e avrò certamente compassione di lui», dice l'Eterno. 21 «Rizza per te dei ceppi, fatti dei pali indicatori, fa' molta attenzione alla strada, alla via che hai seguito. Ritorna, o vergine d'Israele, ritorna a queste tue città. 22 Fino a quando andrai vagando, o figlia ribelle?”.(GER. 31, 18-22)

Quello secondo Luca è comunemente definito ‘Vangelo della misericordia’. Le parabole di Gesù, specie in Luca, sono una miniera di misericordia. In esse Gesù tenta di indurre ad una nuova ‘intelligenza del Regno’.
Con il Capitolo 15 ci si trova al centro di esso.
Per rivelarci il cuore del Padre Gesù ricorre qui al racconto di una possibile vicenda familiare.
Siamo invitati dal nostro brano evangelico a condividere la gioia del Padre e a rispondere all’invito alla festa. Ma per capire e partecipare alla festa organizzata da Dio, è necessario convertirsi al suo amore, vibrare in sintonia col suo cuore, guardare con i suoi occhi, e soprattutto lasciarsi attraversare e vivificare dal suo amore.
Detto questo come preambolo, analizziamo più da vicino la nostra parabola. Essa è in stretto rapporto con le due che la precedono. Di fatto si tratta di un’unica parabola (v.3) con tre paragoni. Ce ne rendiamo conto dalle conclusioni che costellano il Cap.15 di Luca come un ritornello:
“Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la mia pecora che era perduta” (v.6).
“Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la mia dracma che era perduta” (v. 9).
“Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (v. 24 e32).
Lo schema dei tre racconti è lo stesso: perdita – ricerca- attesa – ritrovamento – festa.
Ad una più grande lontananza corrisponde un più grande amore: per la dramma e per la pecora ritrovata si fa festa, per il figlio ritrovato si uccide il vitello grasso, gli si dona l’anello e l’abito regale.
Facciamo ora un passo indietro e soffermiamoci –con l’aiuto di Don Mazzolari- sull’atteggiamento del figlio minore: non è che il padre non gli basti – quando decide di andarsene-. E’ il suo modo di essere di fronte al padre che non gli lascia entrare l’effluvio della paternità, lasciandolo insoddisfatto e sconsolato.
Ma egli comincia a convertirsi proprio quando comincia a staccarsi dalla casa.
L’allontanamento può essere l’inizio di  una lenta e pericolosa, ma provvidenziale elaborazione di un nuovo rapporto col Padre: il vero rapporto religioso.
Allontanamento e ritorno sono due termini che nei nostri rapporti con Dio non si oppongono, perché né la nostra miseria allontana il Signore, né essa ci impedisce di giungere a Lui.
Il Padre è al tempo stesso il pastore che esce per abbracciare, e la donna che resta dentro casa per ritrovare; ma il terzo racconto (il nostro) resta aperto, perché, a differenza dei primi due, non sappiamo se il fratello maggiore resterà dentro casa. Il destinatario del racconto è proprio lui (o noi) se rifiutiamo di far nostro lo stile di Dio, o siamo gelosi della sua misericordia. 

Questa ‘storia di un ritorno’ si può dividere in due parti, che hanno come vertice il versetto 18:
MI  ALZERO’ (risorgerò)  E  TORNERO’ DA MIO PADRE, e gli dirò…
La prima scena (vv.11-24) è dominata dal Padre che spia la strada, che spera contro ogni speranza.
Quel Padre che non poteva costringere il figlio a rimanere a casa, a cui non poteva imporre il suo amore, che ha dovuto lasciarlo andare in libertà, pur sapendo il dolore che ciò avrebbe causato sia al figlio che a se stesso.
Nell’insoddisfazione, nel suo estraniarsi dalla casa, il Prodigo pone il primo atto di uno sforzo veramente religioso che, attraverso varie e dolorosissime vicende, ve lo ricondurrà come figlio devoto e innamorato. Sovente il gesto di rivolta non è che il preludio di una dichiarazione d’amore.

Qui il figlio non è ancora giunto al punto di riconoscere il padre: è ancora lui a dare le soluzioni e a proporle al Padre. Non è ancora un uomo che vede la sua profonda realtà nell’amore.
Troviamo invece la pienezza del riconoscimento del Padre in Gesù al Getsemani, quando chiede se è possibile fare diversamente, ma non impone la propria volontà, riconoscendo nel suo amore di Figlio, la volontà del Padre.
E’ precisamente questo amore filiale che manca ancora al figlio minore della parabola.
Sarà l’abbraccio del Padre al momento del loro incontro a sconvolgere i suoi progetti e il suo modo di pensare.

v.14: “Quando ebbe speso tutto…egli cominciò a trovarsi nel bisogno”; non c’è miglior commento che quello si S. Agostino nelle confessioni: “Io mi facevo sempre più sciagurato, e tu, Signore, ti facevi sempre più a me vicino”.
v. 15 : “Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione”. Questa volta l’andare ha un passo diverso di quando uscì da casa. Allora – commenta Don Mazzolari – più che un cercatore era un conquistatore. Adesso lotta per la vita, per il pane.
v. 16 : Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci, ma nessuno gli dava nulla”. Ma – continua Don Mazzolari – Dio non ci lascia soddisfatti della soddisfazione bestiale; non ci consente di spegnere il dono divino che è in noi. L’uomo deve rassegnarsi ad essere uomo. Dio misericordioso ha posto un limite all’allontanamento da Lui. Il prodigo può contendere le carrube ai porci, ma non può accontentarsi, come i porci, di esse.
v. 17: “Allora ritornò in sè”: prima di trovare Dio, trova se stesso: “Tu eri in me, ma io ero fuori di me” fa eco S. Agostino.
v. 18: “Mi alzerò…andrò…gli dirò: Padre ho peccato verso il cielo e davanti a di te…”. Più che l’amore è la disperazione che lo fa parlare e muovere. “Mi alzerò”: prende la decisione. “Gli dirò : ho peccato”: non voglio gettare la colpa su altri, mi addosso la mia parte di colpa, che è grande.
“Contro il cielo e davanti a di te”; non ho trasgredito una legge anonima; dietro la Legge c’è il Tuo cuore,  c’è la tua paternità, o Signore!

IL PRODIGO E’ IN GINOCCHIO

v. 20 : “Si alzò e tornò da suo Padre”. Si parla normalmente di ‘festa del ritorno’. Il prodigo è uno che va, e, per il padre, un figlio morto e risuscitato, un perduto ritrovato. Ha riconosciuto il proprio torto e nasce di nuovo. Il Padre lo accoglie senza domandargli nulla. Dio ci ama come siamo per farci diventare come ci vuole.
Ed ecco, al versetto 24, vediamo che la morte diventa vita, cioè: nella fatica sofferta di ‘convertirsi per ritornare’ non si vaga senza meta. Un Padre veglia per accoglierci a quel pranzo in cui Egli stesso ci servirà (Lc. 12, 37).
Spesso si ha paura di sottolineare troppo la bontà e la misericordia di Dio. Ma il Vangelo ci insegna che l’uomo cambia la sua vita, la sua mentalità non perché viene sgridato e punito, ma perché si scopre AMATO NONOSTANTE SIA UN PECCATORE. E’ un momento di intenso amore quando la persona vede ad un tratto tutto il suo peccato, percepisce se stessa come peccatrice, ma all’interno dell’entusiasmante abbraccio di Qualcuno che la ama.
La misericordia di Dio è una pazienza attiva e lungimirante. Che non si stanca di aspettare che uno ritorni.
Così ogni uomo, ognuno di noi, potrà dire : “Mi alzo e torno da mio padre, a casa”. Potrà dirlo quando si convincerà della bellezza che si respira nella casa del Padre a causa della libertà che il suo amore emana. Sì, è più importante capire che Dio ci ama, che capire che noi dobbiamo amare Dio.
L’amore di Dio ci fa nuovi, ci restituisce di vivere in una perenne novità di vita (Col. 3,10). Una persona toccata in modo così vivo e immediato dall’amore riesce ad abbandonare la mentalità dell’ ‘uomo vecchio’.
   Ed ora facciamo un salto qualitativo e vediamo come  GESU’ SI E’ FATTO FIGLIO PRODIGO per amore nostro:
Ha lasciato la casa del Padre celeste, è venuto in un paese straniero, ha dato tutto quello che aveva ed è tornato, attraverso la croce, alla casa del Padre.
Egli, l’innocente, si è fatto peccato per noi e Lui, che ha narrato la parabola a quelli che lo criticavano perché si accompagnava ai peccatori, ha vissuto per primo il lungo e doloroso viaggio che descrive.
Dunque, con gli occhi della fede, il ‘ritorno’ del prodigo diventa il ritorno del Figlio al Padre, dopo aver attirato a Sé tutti gli uomini.

Rileggiamo la descrizione che i vv. 20-24 fanno del comportamento del Padre all’arrivo del figlio. Non siamo alla presenza di un bravo figlio che torna a casa e si getta al collo del padre; al contrario è il padre che investe il figlio della sua paternità. Il figlio non riesce a pronunciare il discorso preparato, ma la sua mentalità cambia radicalmente nel momento in cui il Padre ‘gli si getta al collo’. E’ l’amore che cambia una persona, che modifica la sua mente, i suoi sentimenti, la sua volontà. Scoprendosi amato l’uomo vede se stesso in una luce assolutamente nuova.
Commentare al ungo questi versetti rischia solo di attenuarne il vigore.
Sottolineo solo l’incalzare dei verbi:
il Padre vede, si commuove (si turba interiormente), gli corre incontro, gli si getta al collo (letteralmente ‘gli cadde sul collo’), lo bacia, e viene preso da una gran fretta:
“Presto!” dice ai servi: la gioia del Padre è così traboccante che non riesce a trattenersi: ama come solo un padre può amare.
La parabola poteva finire qui, sarebbe finita come gli altri due racconti analoghi della pecora e della dracma smarrite, ma qui l’evangelista apre un altro quadro.
La seconda scena (vv. 25-32) delinea il fratello maggiore, soddisfatto per la sua onestà, che ritiene la conversione una necessità solo per gli altri (cfr. Lc. 18,11-12 –parabola del fariseo e del pubblicano), e le cui lamentele nei confronti del padre ricordano quelle degli operai della vigna di Mt. 20,12.
Dobbiamo riconoscere che i due figli coabitano nella nostra vita.
Ma se riflettiamo sul figlio maggiore ci rendiamo conto di  quanto sia difficile ritornare a casa partendo dalla sua posizione.
Di fronte al tornare in vita del fratello egli prova una reazione di gelosia: in nome della giustizia non può tollerare che quel fratello sia causa di festa. Com’è possibile? Se n’è andato prendendo l’eredità che poi ha dilapidato, mentre lui è rimasto a casa, obbedendo al padre. No, questa festa non gli appartiene.
Tornare a casa da un’avventura sessuale sembra più facile che tornare a casa da un calcolato sdegno che ha messo le sue radici negli angoli più riposti del nostro essere.
Certo, è bene essere obbedienti, ligi al dovere, rispettosi della legge,  ma i nostri risentimenti e lamentele sono spesso misteriosamente legati a questi atteggiamenti lodevoli.
Ed ecco che il padre esce – non lo fa chiamare, esce incontro a lui, come ha fatto col figlio minore, e lo prega con insistenza. Ma il figlio recrimina, vanta la sua giustizia: “Non ho mai trasgredito un tuo comando”.
Solo con Dio il figlio maggiore che è in noi sarà capace di tornare a casa, di lasciare che il Padre guarisca anche lui.
Notiamo più dettagliatamente l’atteggiamento del primogenito:
-parla innanzitutto di sé: “ Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando” (v.29). I termini con cui descrive la fedeltà verso il Padre sono esattamente quelli che definiscono l’ideale religioso degli scribi e dei farisei: “servire” con perseveranza, cercando con estrema cura di non ‘trasgredire’ mai nessun comando.
Il figlio maggiore non si sente trattato con giustizia dal Padre. Ed è a questo suo appunto che il Padre comincia a rispondere (v.31): “ Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo”.
Siamo molto lontani da quel capretto non concesso: “Tutto ciò che è mio è tuo!”.
-Il maggiore passa poi a parlare del fratello con un tono che denota il più profondo disprezzo. Non lo chiama “mio fratello”, ma dice: “questo tuo figlio”, proprio come il fariseo della parabola parla di “quel pubblicano”.
E ancora il Padre, nel rispondere (v.32) riprende le ultime parole che concludono la prima parte del racconto, ma con una variante molto significativa: invece di ‘questo mio figlio’ dice: “Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.
Il figlio maggiore in realtà non era mai stato nella casa del padre: il suo dimorare accanto al Padre non lo aveva portato a conoscerne il cuore. Il suo comportamento fondamentalmente non è diverso dal fratello che se n’è andato: tutti e due non conoscevano l’amore del padre.
La parabola dei ‘due fratelli che non sapevano di somigliarsi’ perché non si sentivano liberi, si sentivano schiavi nella casa della libertà, si interrompe qui.
La parabola non ci dice né dove né quando, né se il maggiore ha recitato il suo ‘confiteor’. Viene la tentazione di pensare che egli sia ancora sospeso tra la durezza ingenerosa di quel cuore che si sente troppo a posto, che ha troppe ragioni per pensare di dover cambiare atteggiamento.
La sua (la nostra) religione ha cessato di essere una ‘passione’, è diventata una legge, che mortifica e non salva.
Il maggiore è uno schiavo nella casa della libertà.
E’ uno di quelli che vedono giusto, che portano in tasca la verità, ma non ha la carità: “Quando avessi il dono della profezia… se avessi tanta fede da trasportare le montagne, se.. se… ma non ho la carità, non ho nulla (1 Cor. 13,1-3).
La finale – allora – per ciascuno dipende dall’accettare o no, di condividere la gioia degli angeli di Dio per ogni storia di fraternità e di figliolanza che ricomincia.

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Ce n’è abbastanza perché possiamo renderci conto del genere di uomini presi di mira della nostra parabola.
Gesù si rivolge a coloro che si reputano buoni servitori di Dio e sono incessantemente preoccupati di non trasgredire i suoi comandi. Essi sono convinti che una pietà così esemplare conferisca loro dei diritti, e non si scandalizzano per i peccatori (per cui provano solo disprezzo), ma si scandalizzano per la misericordia che Dio usa verso di loro.
Perché – se le cose stanno così- che maggior vantaggio avranno ‘ i giusti’? Se i peccatori sono i privilegiati della grazia, a che serve continuare a preoccuparsi di osservare i comandamenti?
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La festa di Dio non è facile. Nell’organizzare la festa il Padre si trova solo, non capito, persino biasimato. E’ la solitudine di Gesù nel farsi vicino ai perduti e di riflesso, è la solitudine dei peccatori. La Chiesa è invitata a diventare luogo di festa sincera per chi ha sbagliato, e mai luogo implacabile della legge. La Chiesa è invitata, da sempre, ma in particolare ora da Papa Francesco e nell’anno della Misericordia, a imparare la difficile arte di creare festa, attraverso l’offerta del perdono fino a settanta volte sette, organizzando la festa della vita anche là dove sembra impossibile, sanando e facendo risorgere, così come ha fatto Gesù.
Per capire e partecipare alla festa organizzata da Dio è necessario convertirsi al suo amore, vibrare in sintonia col suo cuore, guardare con i suoi occhi, lasciarsi attraversare e vitalizzare dal suo amore.


Il richiamo della tenerezza di Dio verso i peccatori – che la parabola rivolge ai farisei non è senza valore per noi.
Ci ricorda che non è possibile servire Dio senza partecipare all’amore che Egli porta ai nostri fratelli ( e a noi) anche e soprattutto se sono (se siamo) peccatori.
“se Dio ci ha amato così, noi pure dobbiamo amarci scambievolmente” (1 Gv.4,11).

La parabola ci pone allora una domanda: qual’è la nostra personale reazione all’atteggiamento del Padre? Tocca a noi dare la risposta che il figlio maggiore non ha dato: ha ragione il Padre o esagera verso il minore? Come giudichiamo la logica del Padre (che supera ampiamente la nostra)?
   Questa parabola ci aiuta davvero a chiederci, noi che amiamo Dio padre, quale immagine di Dio abbiamo.
Gesù ci interpella: a ciascuno di noi dare la risposta nel nostro cuore.

Preghiamo allora così:
“ Donaci, Signore, la fantasia di organizzare la tua festa con progetti positivi di rinnovamento; donaci luce e  coraggio di denunciare e lasciare tutto ciò che offende il fratello e lo allontana dal tuo amore; donaci di essere credenti, concordi e capaci di vera conversione al tuo amore e condividerlo nella festa.
Fa’ che la nostra vita sia profezia della tua festa” Amen.